
Intervista alla sceneggiatrice Franca De Angelis

A cura di Marco Buscarino
Franca De Angelis affermata sceneggiatrice italiana, in un’intervista a Capitale Italia, parla di alcuni aspetti salienti del suo lavoro di autrice televisiva e della realtà del mondo cinematografico in Italia, svelando alcuni segreti del mestiere nonchè la sua passione per il teatro.
Lei è un’autrice di cinema e di televisione di successo, ha collaborato con Carlo Lizzani e Giuliano Montaldo, ha scritto importanti sceneggiature per la Rai e Mediaset e ha ricevuto diversi premi fra cui un David di Donatello, come ci è riuscita?
Ho avuto una doppia fortuna, agli inizi, che mi ha consentito di non fare troppa gavetta. Il mio maestro di sceneggiatura (Nicola Badalucco, scomparso di recente) mi ha chiamato a lavorare con lui, poco dopo aver finito la scuola, consentendomi di entrare nel mondo del lavoro dalla porta principale; e un cortometraggio che avevo scritto insieme ad una cara collega, Francesca Panzarella – credo sia stata la prima cosa mia ad essere realizzata – ricevette la nomination agli Oscar. Quell’anno, era il ’97, non c’erano altri italiani in gara, così il nostro corto – il titolo era “Senza Parole” – ricevette molta attenzione, e quando Francesca ed io tornammo da Los Angeles ci ritrovammo sommerse di proposte. Insomma, alla fine, fortuna. Incontri fortunati.
Quando ha deciso di dedicarsi alla sceneggiatura? Perchè?
In realtà non l’ho deciso, direi di esserci scivolata. Venivo da qualche anno in cui avevo lavorato come attrice e aiuto alla regia in teatro – il teatro era la mia passione – e volevo capire come funzionava il cinema, pensavo alla regia. Però l’ho presa alla lontana, ho cominciato a studiare sceneggiatura, volevo capire le fasi del percorso di creazione di un film. Ed è finita che mi sono fermata là, me la sono sentita congeniale. In fondo io cerco, anche da spettatrice, la storia; più delle immagini, delle atmosfere.
Qual è la differenza fra una sceneggiatura cinematografica e una televisiva?
Quando ho cominciato, la televisione in Italia era ancora una realtà non industriale. Si stava affacciando a diventarlo, ma era ancora molto autoriale, al massimo artigianale. Il grosso della produzione riguardava film tv e mini-serie. Quindi direi che noi sceneggiatori non ci ponevamo grandi problemi sulle differenze col cinema, semplicemente stavamo attenti a non affidare troppo l’emotività alle immagini, ai paesaggi, ai campi lunghi, e cercavamo di tener conto della diversa soglia di attenzione del pubblico televisivo rispetto a quello cinematografico. Poi, nel giro di qualche anno, ci si è concentrati sulla serialità, come prodotto specificamente televisivo. E la serialità sì, ha delle regole proprie, su cui è in atto, purtroppo soprattutto all’estero, una continua sperimentazione. In modo molto riduttivo, direi che nella scrittura cinematografica ci si concentra su una parabola, in quella televisiva nello scavo psicologico.
Come nasce un soggetto cinematografico? Zavattini lo scriveva in poche righe e lei…?
Non c’è una regola, a volte nasce da chiacchiere, altre da un’immagine, da un personaggio, o da qualcosa che ci preme dire, un concetto, o da un fatto che ci è accaduto, o che si è letto su un giornale. Alla fine in una storia c’è tutto questo, immagini, personaggi, fatti, e un concetto. Qualcosa che per noi è importante dire, che è la cosa che ripeto fino allo sfinimento quando mi capita di insegnare, perché a volte lo si dimentica. L’unico motivo valido per fare un film è che vogliamo dire qualcosa in cui crediamo sinceramente, se non ci crediamo noi non ci crederà nessun altro. Credo che alla fine qualsiasi storia si possa raccontare in poche righe, ma i tempi sono cambiati da quando un produttore si convinceva a firmare un anticipo dopo quattro chiacchiere con lo sceneggiatore. Ormai si tende a scrivere soggetti corposi, che raccontino il film in modo abbastanza dettagliato.
Si parla spesso di carenza di idee per il cinema cosa pensa a riguardo?
Quando c’è un momento di crisi nel cinema, o in qualunque altro campo artistico, si parla di crisi di idee. Io credo che sia sempre, invece, una crisi dell’industria, del meccanismo produttivo e distributivo, che in Italia è abbastanza malato. Gli sceneggiatori nostrani hanno i cassetti pieni di belle idee, ma ai produttori manca spesso il coraggio di investirci su. Preferiscono andare sul sicuro, commedie per esempio, meglio se corali così possono montare il film su un pacchetto di nomi. Quando è così succede che alla fine gli stessi autori comincino ad auto-censurarsi, a dirsi: tanto questa storia non si farà mai, inutile scriverla. Non c’è nulla di peggio.
Negli Stati Uniti gli sceneggiatori sono considerati quanto gli attori principali del film e i registi, in Italia qual è la situazione?
Tasto dolente. In Italia, per qualche oscura ragione, nonostante abbiamo avuto nel nostro passato grandissimi sceneggiatori, la nostra categoria professionale non è mai stata molto considerata, e va sempre peggio. Evidentemente non siamo stati bravi nel passato a sostenere la nostra importanza, forse ai vari Age e Scarpelli non interessava. La figura dello sceneggiatore viene spesso oscurata da quella del regista, tanto che in importanti festival nostrani nei cataloghi sotto al nome del film non c’è la voce: sceneggiatura. Da un paio d’anni si è costituita la Writers Guild Italia, gemellata alla Guild americana, che ha fra i principali obiettivi proprio quello di dare visibilità alla categoria, di far arrivare ai media e al pubblico questo semplice concetto: senza lo sceneggiatore non ci sarebbe il film. Tutto nasce da lì. Uno dei modi, opera del volontariato di noi “guilders”, è supplire al vuoto d’informazione, ad esempio intervistando per il nostro sito gli sceneggiatori dei film in concorso ai festival, delle fiction che vanno in onda, controllare che gli sceneggiatori siano presenti al panel nelle conferenze stampa, e naturalmente combattere perché vengano loro garantiti quei diritti contrattuali che in molti altri paesi sono sanciti.
Le case di produzione che producono film o serie per la televisione solitamente scelgono cast e protagonisti, anche per gli sceneggiatori vale lo stesso principio?
Come ho accennato prima, la storia è il punto di partenza di un film, dunque dovrebbe funzionare che il produttore parta da una storia presentata da uno sceneggiatore per poi trovare il resto: regista giusto, attori giusti. In un’industria sana va così. Da noi non sempre, perché quello che dovrebbe essere normale per un imprenditore, cercare l’idea migliore, valorizzare i creativi e le idee, non sembra valere in Italia. Non si cercano idee nuove, se non in piccole nicchie intrepide, ma idee comode, rassicuranti. Badalucco, il mio maestro, ci ripeteva fino allo sfinimento di creare prototipi. Ecco, ora la sensazione è che i prototipi non siano ben visti. Si cercano ripetizioni, cose già sperimentate. Basti pensare che preferiamo comprare format stranieri anziché crearne di nuovi.
Si sente più portata per la scrittura cinematografica, televisiva o teatrale?
Diciamo che dopo vent’anni di mestiere la sceneggiatura – cinematografica e televisiva –è la forma di scrittura che credo di saper maneggiare di più. Alla scrittura per il teatro mi sono affacciata da pochi anni, nonostante il teatro fosse il primo amore. Però forse proprio per questo ora come ora è quella che mi appassiona di più. Mi dà una possibilità di sperimentazione che la nostra televisione non offre se non in pochi casi. E poi scrivere per il teatro ha un grande vantaggio: il tuo copione non finisce con il film. Mi è capitato di scrivere buoni copioni della cui realizzazione, per motivi diversi, non sono stata contenta. Ecco, con il teatro, se accade, puoi pensare: ci sarà una prossima volta.
Lei ha scritto sceneggiature a carattere storico o incentrate su personaggi leggendari per la Rai e Mediaset, crede che questo genere possa avere successo anche in futuro? Perchè?
A me piace molto il genere storico-biografico, non lo considero “un genere per vecchi”, anzi. A patto però che in una biografia, come in un evento storico, si ricerchi la metafora. Una metafora universale che quella vita, o quell’evento, contiene. E possibilmente anche nuovi modi di raccontare, non necessariamente lineari, come si tende a fare in televisione. Il genere “biografia” ha in sé un rischio, che è quello di trasformarlo in “agiografia”, di eliminare conflitti, contraddizioni, inquietudini di un personaggio per farne un santino; e questo va in tutti i modi evitato. Detto ciò, è un genere che nasce dal bisogno dell’uomo di avere – o di superare – modelli, di imparare da ciò che ci ha preceduto, e non credo che tramonterà.
Lei è anche autrice di commedie musicali, che differenza c’è tecnicamente fra un testo teatrale e una commedia musicale?
Una sola volta mi sono trovata a lavorare su una commedia musicale. Da un punto di vista tecnico, quello che succede è che sai di dover affidare i punti di svolta della storia e dei personaggi, dunque le cosiddette “scene madri”, a momenti musicali, a volte accompagnati da una coreografia, e questo comporta una collaborazione molto stretta già nel momento della stesura del copione con altre figure, primo fra tutti il musicista.