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Tessuti e abiti di lusso per le donne nel Rinascimento.
Articolo di Paola Tinagli
Paola Tinagli è storica dell’arte e ricercatrice. Ha pubblicato diversi libri sulle donne nel Rinascimento fra cui “Women in Italian Renaissance Art” uscito come gli altri in Gran Bretagna.
Il 20 settembre 1492, la marchesa di Mantova Isabella d’Este scrisse una lettera a suo cognato Ludovico il Moro, che tempo addietro l’aveva accompagnata, con la moglie Beatrice d’Este e la duchessa di Milano Isabella d’Aragona, da un mercante di tessuti. Ludovico le aveva poi chiesto quale fosse, secondo lei, la stoffa più bella, e Isabella nella sua lettera rispose che l’aveva colpita “uno rizo soprarizo d’oro cum qualche arzento, lavorato ad una sua divisa che si dimanda el fanale zoè el porto di Genua che sono due torre cum uno breve che dice TAL TRABALIO M’ES PLACER POR TAL THESAURO NO PERDER” che era stato creato espressamente per Ludovico perché era decorato con una delle sue “imprese” personali, le due torri del porto di Genova, che era stata riconquistata nel 1488. Ludovico, che aveva già fatto fare a sua moglie una camora (una veste) proprio con quella stoffa, si affrettò a mandare a Isabella 15 braccia di questo tessuto splendido, con ricci broccati d’oro e d’argento a diverse altezze, che costava 40 ducati al braccio. Possiamo paragonare il costo di questa stoffa con quella che la marchesa di Mantova Eleonora d’Aragona dette in dono nel 1485 alla moglie dello scultore Guido Mazzoni per una camora: cinque braccia e mezzo di panno grigio fiorentino a due fiorini al braccio, e un pezzo più piccolo di velluto color morello a tre fiorini al braccio per le maniche (che erano confezionate separatamente, di solito con stoffe più lussuose, e venivano poi allacciate al corpetto). La produzione di tessuti di lusso non solo per abiti, ma anche per l’arredamento della casa, inizia naturalmente ben prima del Rinascimento, e non è certo limitata all’Italia. È però nell’Italia del Quattrocento che l’esibizione del lusso, la “cultura delle apparenze”, si afferma nelle corti e presso le élites cittadine. È evidente però che i vestiti venivano apprezzati per la loro qualità e la loro bellezza, oltre che per il significato sociale che trasmettevano. La prima parte di questo articolo si limita ad esaminare il significato e l’importanza dei tessuti per abiti nel Quattrocento e Cinquecento, e ad illustrare alcune delle tecniche usate per la tintura e la tessitura di stoffe, di cui rimangono esempi nei musei e che vediamo rappresentate sia nei ritratti che nei dipinti di soggetto sacro di questo periodo. I ritratti saranno esaminati più dettagliatamente nella seconda parte.
Sia sfogliando i documenti del tempo – lettere, inventari, prediche, trattati e legislazioni – sia osservando i dipinti, è facile rimanere abbagliati dallo sfarzo di tessuti e abiti, e notare anche quanto questi fossero cruciali per la società di questo periodo storico. Leggi suntuarie nelle varie città cercavano, molto spesso invano, di limitare le spese per l’abbigliamento, e indicavano le stoffe, le foggie e gli ornamenti che erano permessi ai diversi gruppi sociali: in teoria, doveva essere possibile distinguere lo stato sociale di una persona dagli abiti che indossava. L’aristocrazia era ovviamente esente da qualsiasi restrizione, mentre la gran parte degli abitanti delle città e delle campagne indossava normalmente abiti usati e poteva permettersi qualcosa di nuovo solo in occasioni speciali come il matrimonio.Per l’aristocrazia e l’élite mercantile era un obbligo, e naturalmente anche un piacere, vestire in modo che i colori e le foggie degli abiti dimostrassero la loro posizione sociale e la loro ricchezza: la marchesa di Mantova Barbara di Brandeburgo, moglie di Ludovico Gonzaga, preparandosi per una visita a Milano nel 1459, aveva chiesto all’ambasciatore dei Gonzaga a Milano, uno dei più importanti centri per l’industria tessile, di cercare delle stoffe preziose per nuovi abiti da sfoggiare alla corte degli Sforza. La loro corrispondenza riguardante questi tessuti andò avanti per mesi. In una delle sue lettere, l’ambasciatore scrive di aver cercato in tutti i negozi il damasco morello broccato in oro richiesto dalla marchesa, ma non era riuscito a trovarne abbastanza nemmeno per fare un corpetto. Anche un’altra marchesa di Mantova, Isabella d’Este, usava l’ambasciatore dei Gonzaga a Venezia, Giorgio Brognolo, per far fare espressamente per lei delle stoffe speciali: nel giugno 1496 gli scrive infatti che vuole “nove braza di raso morello scuro et nove de beretino (un colore bigio) che sia de mezo collore cioè non troppo scuro né troppo chiaro, ma siano de tuta excellentia, et però dicemo che li faciati fare aposta…”. Nell’agosto dello stesso anno, Isabella vuole della tela di rensa, o tela di Reims, un tessuto di lino finissimo usato per confezionare la biancheria, e specifica che deve essere della migliore qualità: “Desideramo havere sei o octo braza de tela di renso che sia tanto fina et tanto bella che non habia parangono perché de la comune havemo in quantità. Volemo che faciati cercare tutti li fontechi de Venezia per trovare la più bella e la faciati vedere a vostra moglie che se ne intenderà meglio de vui.”È stato calcolato che nella Firenze del Quattrocento, un altro dei centri importantissimi per l’industria tessile, una famiglia appartenente all’èlite cittadina spendeva in media il 40% del suo reddito annuo per l’abbigliamento. Nel 1447 Marco Parenti, facoltoso mercante di tessuti in seta, spese 560 fiorini per gli abiti e le acconciature per la sua sposa, Caterina Strozzi: la madre della sposa, Alessandra Macinghi Strozzi, scrive a suo figlio Filippo che Marco aveva fatto confezionare una sopravveste (cotta, chiamata anche giornea o cioppa) con il “più bel drappo che sia in Firenze”, un velluto di seta cremisi che proveniva dal suo negozio. Non a caso, tra le Arti Maggiori, a cui appartenevano i cittadini eletti al governo di Firenze, vi erano l’Arte della Lana, quella della Seta, e l’Arte di Calimala (la corporazione dei mercanti di tessuti). Secondo i dati del Catasto del 1427, a Firenze 900 capi famiglia erano impegnati nella produzione e commercio di tessuti. Le città che si distinguevano per la produzione di tessuti erano Milano, Firenze e Venezia, quest’ultima specialmente per la produzione di stoffe di seta. A Milano, l’industria della seta era stata fondata poco prima della metà del Quattrocento, sotto Filippo Maria Visconti, mentre a Firenze si era sviluppata nella prima metà del Trecento, quando i setaioli lucchesi, veri maestri in questo settore, si erano trasferiti a Firenze dopo la vittoria di Pisa su Lucca. È interessante notare che, sia a Firenze che a Milano, una buona parte della manifattura della seta era in mano a donne.Stoffe di ogni tipo erano regali importanti e sicuramente ben accetti: in 1468 Giovanni Rucellai nota nel suo Zibaldone, il suo “Libro di Ricordi”, che dopo il parto della nuora Nannina de’ Medici (sorella maggiore di Lorenzo il Magnifico), i padrini avevano regalato alla levatrice sedici braccia di satin di seta cremisi per un abito, e un braccio e mezzo di damasco violaceo broccato d’oro per le maniche. Abiti e stoffe erano anche lasciati in eredità a parenti e amiche, come testimoniano moltissimi lasciti testamentari.La lana, la seta, il cotone e il lino venivano spesso tinti “in filo”. La tintura poteva richiedere diversi passaggi e trattamenti, spesso con mordenti o fissatori, a seconda del tipo di colore richiesto. Le tecniche sono descritte in un numero di trattati, tra i quali il “Manuale di tintura”, scritto da un tintore veneziano alla fine del Quattrocento, con notizie sui coloranti e bagni di tintura per panni di lana e filati di seta, e il “Trattato dell’arte della seta”, scritto nel Quattrocento da un setaiolo fiorentino, molto interessante anche per le sue illustrazioni.
I coloranti più usati erano i seguenti: Chermes, per ottenere il rosso acceso, rosso cremisi. Veniva estratto dall’insetto coccus ilicis, un parassita della quercia, proveniente dalla Sicilia, Sardegna, Francia meridionale, Africa settentrionale, e dal Medio Oriente.Grana, per ottenere un rosso carminio, con varianti dal rosso al purpureo. Era estratto da un insetto, la cocciniglia, ma era di meno valore del chermes.Robbia, per ottenere un rosso aranciato. Veniva estratto dalle radici della rubia tinctorum, pianta dell’Europa meridionale, coltivata in Lombardia, Romagna e Toscana. Usata per lana, seta, cotone. L’allume veniva usato come mordente. Verzino, o Legno di Brasile, per ottenere un rosso chiaro, dal rosa al lilla. Era estratto dal legno delle piante appartenenti alla famiglia delle Cesalpinacee. Proveniva dall’India, Sumatra, Ceylon, Cina e Giappone, e dopo la scoperta dell’America anche dal Brasile, Giamaica, Messico.Oricello, per ottenere un rosso con sfumature violacee, chiamato “alessandrino”. L’oricello era ricavato da diverse specie di licheni.Guado, per ottenere l’ azzurro. Veniva estratto dalla foglie seccate e fermentate della pianta isatis tinctoria, comune in Europa. Indaco, per ottenere un azzurro profondo. Era estratto dalle foglie della pianta indigofera tinctoria, e proveniva dall’India. Spesso era usato al posto del guado durante il Rinascimento. La lavorazione venne descritta da Marco Polo nel 1305.Reseda, per ottenere il giallo. Era estratto dalla pianta reseda luteola che cresce in tutta Europa. Zafferano, per ottenere un giallo oro. Era estratto dagli stimmi del crocus sativus, che in Italia era coltivato in Toscana (territorio di Siena) e in Sicilia.Scotano, per ottenere un giallo con sfumature brune o arancio. Veniva estratto dal legno del cotinus coggyria. Per ottenere il verde, i panni venivano tinti con la reseda e poi con l’indaco. Il pavonazzo era un colore molto ricercato nel Rinascimento e difficile da categorizzare: poteva essere un rosso tendente al blu o al violaceo, oppure un blu pavone. Per ottenerlo venivano usati vari metodi: il cremisi più oricello; cremisi più indaco; grana più oricello; robbia più oricello.Il nero era simbolo di ricchezza, perchè un buon nero profondo, che rimaneva tale nel tempo senza stingere, richiedeva un lunghissimo procedimento per la tintura, e doveva anche essere passato attraverso bagni di fissativi. Un buon tessuto nero era quindi molto costoso. Si otteneva con bagni successivi di azzurri, rossi e gialli (per un risultato più stabile), o con una miscela di galle, gomma arabica, limatura di ferro, e vetriolo di ferro (che risultava in un colore meno stabile).I tessuti usati per confezionare abiti di lusso erano, oltre al panno di lana: Broccatello: ha un fondo raso creato da una trama lanciata di seta, mentre l’opera in rilievo è ottenuta da una trama di lino.Broccato: è un tessuto decorato da brocchi (gruppi di filo sollevati, o “ricci”, che possono essere di altezze diverse): alla trama rasa del fondo vengono introdotte una o più trame supplementari, o con filo metallico in oro o argento, o con filo di seta, lana, lino o cotone, per creare disegni. Damasco: è un tessuto di un solo colore, in cui il disegno operato opaco su fondo lucido viene introdotto su entrambe le facce. Lampasso: un tessuto con un fondo di seta o tela, e trame o broccate o lanciate che creano un disegno. Sciamito: un tessuto di seta pesante o di velluto Tabì: un tessuto di seta, lavorato in modo di ottenere effetti di marezzatura. Taffetà: un tessuto di seta leggeraTela di rensa: un tessuto di lino leggerissimo, usato per biancheria. Velluto: viene tessuto in modo che sia il fondo che il pelo vengono prodotti contemporaneamente. Il velluto di seta è ovviamente più lucido e più pregiato. Velluto alto e basso: i disegni sono prodotti da altezze diverse del pelo. Velluto riccio: il pelo è legato alla trama in modo che si formino riccioli. Velluto tagliato: i riccioli sono tagliati. Velluto operato: velluto in cui il fondo resta scoperto e senza pelo, e i disegni sono di pelo. Velluto ricamo: velluto operato, in cui i disegni in velluto riccio sono più alti di quelli del velluto tagliato Velluto allucciolato: velluto con trame di filo metallico, oro o argento, che creano riccioli bouclé. Questi possono essere sparsi per tutto il tessuto, o disposti fitti per creare un disegno. Zendado: tessuto molto fine e leggero in seta. I fili d’oro o d’argento, che figurano spessissimo nei tessuti più costosi, erano ottenuti con una lunga lavorazione che richiedeva grande abilità. Artigiani chiamati battiloro riducevano una moneta d’oro in foglia d’oro, che veniva poi portata alle filaoro, di solito donne, che avevano la destrezza richiesta per tagliare con apposite forbici i pezzi di leggerissima foglia d’oro in striscioline sottilissime. Queste venivano poi passate ad un’altra filaoro, specializzata nell’avvolgere queste striscioline con un fuso attorno a un filo di seta.
Fig 1. Domenico Ghirlandaio, Giovanna degli Albizi Tornabuoni (dettaglio dalla “Visitazione”, Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, Firenze), affresco, 1486-90. Giovanna indossa un gamurra rosso aranciato con liste incrociate d’oro, con la maniche tagliate che lasciano intravedere la camicia di leggera tela bianca. Sopra la gamurra, una giornea (chiamata anche cioppa) di broccato d’oro, con motivi araldici: la punta di diamante dei Tornabuoni, il sole con al centro i due anelli concentrici degli Albizi, e una colomba.
Fig 2. Filippo Lippi, Ritratto di dama (Angiola Sapiti con il marito Lorenzo Scolari), Metropolitan Museum of Art, New York, tempera su tavola, c.1438. Un doppio ritratto, probabilmente commissionato in occasione del matrimonio dei due personaggi la cui identità è indicata dallo stemma della famiglia Scolari sotto le mani dell’uomo. La donna occupa la parte più importante del dipinto, e sfoggia un abito e un’acconciatura confezionati con tessuti ricchissimi e impreziositi da gioielli. I capelli sono nascosti da una sella alla francese o alla fiamminga, con una cuffia ricamata e orlata di perle, con un cappuccio ricamato con filo d’oro, perle e pietre preziose. La cioppa rossa è bordata di pelliccia, e stretta sopra la vita da una cintura d’argento. Le pieghe , trattenute dalla mani, mostrano la quantità del costoso tessuto usata per confezionare questo indumento. L’ampia manica a gozzo termina al polso con un ricamo in oro con la scritta “LEALTÀ”, una virtù appropriata a una sposa, ed è tagliata in modo da far vedere la manica della gamurra. Questa sembra essere di un velluto “alto e basso”, allucciolato e broccato, costosissimo, che pochi tessitori riuscivano a produrre e che richiedeva una lunghissima lavorazione.
Fig. 3. Maestro della Pala Sforzesca, Pala Sforzesca, Pinacoteca di Brera, Milano, tempera e olio su tavola, c. 1495Questa pala d’altare fu dipinta su commissione di Ludovico il Moro, che era stato nominato duca di Milano nel 1494, per la chiesa di S. Ambrogio in Nemo. Ludovico e sua moglie, Beatrice d’Este, sono rappresentati di profilo, inginocchiati con i loro figli e presentati alla Vergine da S. Ambrogio, che appoggia la mano sulla spalla del duca, e i Dottori della Chiesa S. Agostino, S. Gregorio e S. Girolamo. Beatrice indossa una camora di satin giallo dorato con liste di velluto nero applicate, e con nastri d’oro che allacciano le maniche al corpetto e che decorano le maniche. Perle e pietre preziose le adornano i capelli, che sono legati dietro la testa nel coazzone di moda alla corte sforzesca.
Paola Tinagli


